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Mostre fotografiche
Lo spirito dell’Ubuntu
prefazione di Valentina Pinello
Numuntu Ngumuntu Nga Bantu, Ognuno è qualcuno grazie alle altre
persone, recita una massima africana. In un viaggio fotografico a Cape
Town, Marco Baroncini ha cercato di racchiudere nei suoi scatti un’esperienza
umana profonda vissuta nelle township, i sobborghi neri di Cape Town entrando
in contatto con la gente del posto, per lo più di origine Xhosa,
ascoltando le loro storie e cercando di penetrare e capire quel concetto
straordinario e difficile da spiegare a parole che è la filosofia
africana dell’Ubuntu, ossia il senso di umanità, gioia, fratellanza
che si percepisce tra le persone nonostante le loro condizioni di vita
siano di estrema miseria. Il risultato è un reportage che vuole
essere anche un documento sulla realtà del Sudafrica di oggi, un
paese dalle tantissime contraddizioni in cui continuano le discriminazioni
razziali nonostante siano trascorsi dodici anni dalle prime elezioni democratiche
e dalla fine “ufficiale” dell’Apartheid.
Le township sono la lente di ingrandimento di queste contraddizioni e
per la posizione marginale e periferica in cui si trovano, localizzate
lungo la superstrada N2 che porta all’aeroporto e tutto intorno
a Cape Town, rappresentano dei microcosmi a sé che seguono dei
ritmi di progresso e degli stili di vita lontani anni luce dal tentativo
di ripresa economica che invece pare stia attraversando il Sudafrica,
anche se a fatica e a passi lenti.
Il lavoro fotografico qui esposto è solo un estratto di un lavoro
più ampio che è stato svolto in particolare a Langa, la
più antica township sorta nel 1927, a Gugulethu, che in Xhosa vuol
dire “Orgoglio”, a Khayelisha, la più giovane e la
più estesa, con i sui circa 800.000 abitanti. Le foto intendono
fissare momenti di vita quotidiana della gente all’interno delle
loro “case”, innanzitutto: nei “match box”, ossia
negli appartamenti di 3mx3 in cui vivono famiglie anche di sei/sette persone
o lavoratori che arrivano da soli dalla zona rurale dell’ Eastern
Cape lasciando nei poverissimi villaggi di provenienza moglie e figli,
sapendo già di non poterli vedere più di una volta l’anno;
negli “hostels”, edifici in mattoni risalenti agli anni ’50
composti da stanze in cui sono stipate anche tre famiglie diverse, disposte
in tre letti a castello per un totale anche di otto persone, con un solo
bagno per piano e solo qualche fornello per cucinare; negli “shacks”,
baracche in lamiera o in legno che rappresentano la tipologia di abitazioni
più diffusa nelle township. Si estendono a perdita d’occhio
e solo a prima vista sono tutte uguali. Per colore, struttura e ogni altro
aspetto ognuna di queste baracche ha una sua originalità e la gente
che le abita sembra volerla orgogliosamente marcare.
Alcune di queste baracche sono adibite a “shebeen” che rappresentano
un’altra particolarità della vita nei sobborghi: sono i bar
o pub locali, nati durante il periodo dell’Apartheid come dei luoghi
clandestini in cui si potessero bere alcolici, vietati ai neri dal governo
bianco. Oggi sono rimasti come unico luogo di svago e di ritrovo prevalentemente
per uomini, dove nel fine settimana si va a bere l’umgqombothi,
birra xhosa preparata con metodi tradizionali.
I colori degli “shacks” sono una nota di allegria che insieme
alla musica, che esce sempre a volume altissimo da una delle baracche,
al correre e giocare dei bambini scalzi per le stradine di fango e terra
e alle donne con i loro bimbi tenuti sulle spalle fasciati da asciugamani
legati alla vita, rappresentano una costante nella vita delle township,
dove prevale un senso inspiegabile di serenità e armonia tra le
persone, anche se i problemi che interessano questo lembo estremo dell’Africa
necessiterebbero riflessioni più profonde e responsabilità
maggiori da parte di tutti, del governo sudafricano, dei sudafricani stessi
ma anche dei paesi occidentali.
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